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Biografia di Louise Brooks

Ballerina, show-girl e attrice del cinema muto americana.

Louise Brooks

Mary Louise Brooks, attrice anticonformista, con un passato da ballerina, debutta nel 1925 in alcuni film di scarso rilievo finché “Capitan Barbablù” (1928) di H. Hawks non lancia il suo personaggio di femme fatale dal riconoscibile caschetto nero. Georg Wilhelm Pabst la preferisce a Marlene Dietrich per “Lulù - Il vaso di Pandora” (1928) tratto da due noti testi teatrali di Frank Wedekind.
La sua carica di erotismo e apparente, sottile perversione si accentua ancora di più in “Diario di una donna perduta” (1929) di Pabst, torbido melodramma che critica duramente l’ipocrisia dei valori borghesi.
Mal vista a Hollywood e scalzata dal ruolo di sex-symbol da altre attrici (Dietrich, Garbo, Harlow), negli anni Trenta deve accontentarsi di film minori e in seguito di qualche soap opera radiofonica.
Louise era figlia di un avvocato. Debutta a soli 15 anni come ballerina di fila nello spettacolo “George White’s Scandals” e l’anno successivo entra nelle “Ziegfeld Folies”. A 22 anni è già tra la “gioventù dorata” della città del cinema. Però non lega con l’effimero hollywoodiano e molti la considerano tanto bella quanto stupida. Nel 1925 appare in “Street of forgotten men”, di Herbert Brenon, poi è la volta di “The american Venus” (Il trionfo di Venere, 1926) di Frank Tuttle, con Ford Sterling, e ancora nel 1926, “A social celebrity” (Un barbiere di qualità), di Malcom St. Clair, insieme ai divi del momento, Adolphe Menjou e Chester Conklin. Fino al 1938 lavora in altri 21 film e con “Overlad stage raiders” di George Sherman, lascia il cinema e la celebrità. Ha solo 36 anni, la tentazione di esistere era stata più forte di una falsa seduzione di vivere in un mondo falso.
La Brooks non è donna semplice. Si sposa due volte. Nel 1926 con Edward Sutherland, un rampollo di Hollywood... si lasciano dopo un anno e mezzo. Nel 1934 ci riprova con Deering Davis, si separano dopo pochi mesi. Dopo la “sindrome di Hollywood” si ritira a Wichita, nella casa patema. Nel 1943 si trasferisce a New York. In piena solitudine. Qui capisce subito che l’unica carriera ben retribuita che gli offrivano “in qualità di attrice fallita di trentasei anni, era quella della squillo” (Louise Brooks). Scrive brevi ritratti delle star che ha conosciuto: Greta Garbo, Lilian Gish, Marlene Dietrich, Charlie Chaplin, Buster Keaton, Humphrey Bogart, Marion Davies... i suoi lavori vanno a comporre uno spaccato lucido e feroce della “fabbrica dei miti di celluloide”.
Nel momento che si sceglie la strada della “verità” o della non genuflessione alla griglia delle idee dominanti, si viene espulsi dall’ordinario. Il rifiuto della propria inessenza è al fondo di ogni rottura, separazione, devianza da ogni legittimazione della sofferenza individuale e collettiva. Interrogarsi sulla propria esistenza vuol dire fare già i conti con le proprie paure, i propri terrori, i desideri di libertà (anche sessuale) che si scatenano oltre i terreni del sociale. Chi conosce la soddisfazione di vivere ha già risposto a molti interrogativi su perché viviamo. Il rifiuto del letame istituzionale (Dio, Stato, Famiglia, Esercito) implica conoscersi ed entrare nella vita non per ammazzare il tempo di un’umanità diminuita, predata, violata nel profondo della propria storia... ma per conquistare un tempo e un’esistenza misura d’uomo. “Amo gli omosessuali poiché da loro non nasceranno soldati” (Francis Picabia) o boia della ragione codificata.
L’intera vita della Brooks fu attraversata da un senso spiccato per la verità, la libertà e la sessualità senza permessi di “buona condotta”. Le sue decisioni improvvise erano dettate da una certa inclinazione alla misantropia, supportata da una cultura finissima. Goethe, Proust, Schopenhauer scivolavano nei suoi scritti e l’accompagnavano lungo i crinali della solitudine che si era scelta. Amava queste parole di Goethe: “Un uomo è importante non per quello che lascia dietro di sé, ma per quanto agisce e gioisce, e induce gli altri all’azione e al piacere”. Le fece sue. Si allontanò da tutto quanto poteva parlare di lei. Uccise il mito e ritrovò la donna.
Quando la Brooks apparve nel dittico di Georg Wilhelm Pabst, “Lulù” (Die büchse der Pandora) e “Il diario di una donna perduta” (Das tagebuch einer verlorenen, 1929), la sua “straordinaria e conturbante bellezza, il prototipo della donna seduttrice, l’incarnazione del sesso” (Gianni Rondolino) che le erano stati fabbricati addosso un anno prima da Howard Hawks in “Capitan Barbalù” (“A girl in every port”, 1928), irruppero nel perbenismo inquietante di quegli anni stupidamente folli. La Brooks divenne l’oggetto del desiderio (maschile e femminile) delle giovani generazioni. La raffigurazione del meraviglioso, del diverso e del trasgressivo che si aprono al mondo del sogno e festeggiano la trasfigurazione dei divieti nel cinema e oltre il cinema.



L’iconografia di donna perversa, androgina, libertaria che la Brooks ha debordato dallo schermo alla vita e dalla vita alla storia... sarà rivisitata dai fumetti di John Striebel, apparsi sui giornali americani dal 1926 al 1966. Guido Crepax penserà alla malizia conturbante della Brooks, quando disegnerà l’eterea e peccaminosa Valentina. Lulù finirà nei giocattoli, nelle sfilate di moda, negli spettacoli canterini dei transessuali, negli arredi salottieri della sinistra sofisticata... nella giungla massmediale dell’immaginario collettivo la nidificazione del fac-simile non è solo un quadro di costume ma il vessillo di un’epoca. L’immoralità di Lulù è quella di sempre. Il destino (suo e di tutti quelli che si chiamano fuori dalle strutture del pensiero legiferato) è “dare scandalo e inciampare nel groviglio delle leggi che proliferano con arbitrio selvaggio. Le autorità sono ragni in agguato in una rete sottilissima di regolamenti, e rimanere intrappolati in quelle maglie è soltanto una questione di tempo” (Joseph Roth). Ciascuno è artefice della propria mediocrità servile come della propria intelligenza eversiva.
“Lulù” era la trasposizione cinematografica dei drammi teatrali di Frank Wedekind, “Erdgeist” e “Die büchse der Pandora”, ispirati alle turbolenze anarchiche di una donna che aveva scosso i drappeggi moralistici di fine secolo, Lou Andreas-Salomé. La singolarità della sua intelligenza, le sue idee sul “libero amore” affascinarono uomini come Friedrich Nietzsche e Paul Rée (con la quale convissero dando pubblico scandalo) ed anche Sigmund Freud sostenne che la Salomé era stata una delle sue migliori allieve. Rilke (il poeta degli angeli) la amò profondamente e le dedicò pagine indimenticabili. Questo simbolo dell’erotismo trasgressivo, perverso, omosessuale... restò vergine fino a 33 anni. Se poi non è vero, fa lo stesso.
L’erotismo scabroso che la Brooks portava sullo schermo, incendiò molti pregiudizi. In qualche modo contribuì anche a disvelarli o a farli crollare. In “Lulù”, la sequenza lesbica tra Alice Roberts e la Brooks (la prima senza veli nella storia del cinema), fu così riuscita che piacque a pochi... in molti paesi la tagliarono per indecenza... eppure si trattava solo di un ballo tra due donne e l’intesa dei loro sguardi equivoci, sensuali e straordinari (resi indimenticabili dall’intelligente dal montaggio incrociato di Pabst). Qui, più che altrove, l’erotismo si risolve come metafora e oltrapassamento dei limiti, rottura del divieto.
Qualcuno ha confuso l’erotismo con la perversione e ha scritto che Lulù/Brooks “rappresentava la quintessenza degli impulsi sessuali femminili, e dotata di una carica fisica ossessionante e aggressiva, Lulù aveva come unica spinta vitale il tentativo di placare i suoi insaziabili istinti, e il maschio come unico mezzo possibile di soddisfarli... Era incapace di comprendere la propria degenerazione... Priva d’interessi nella vita e non sul piano del sesso, puerile nel suo egoismo e nelle sue determinazioni, Lulù era l’essenza della gioventù, della bellezza e del fascino: non poteva finire che in modo violento, distrutta dalle stesse passioni” (Paul Rotha/Richard Griffith). Alle sentenze facili, ai crismi della “buona società” coatta, alla terribilità del sistema mercantile del pensiero, preferiamo l’humour noir di tutte le sessualità liberate. Dietro i “buoni sentimenti” c’è sempre la garrota.
Come nei romanzi a puntate, nei telefilm o negli sceneggiati televisivi... la morte liquida la trasgressione. Cancellata l’anomalia, ritorna la decenza e vengono ripristinate regole e comportamenti. Il finale di “Lulù” è tra i più belli della storia del cinema. È la vigilia di Natale, in una nebbiosa strada di Londra, Lulù che si guadagna la vita facendo la puttana, adesca Jack lo Squartatore e firma la sua condanna a morte.

Frasi Celebri di Louise Brooks

Cinema:
La grande arte di creare film non consiste nel descrivere i movimenti della faccia o del corpo ma nei movimenti del pensiero e dell'anima.

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Data creazione biografia: 1 gennaio 1970
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