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Biografia di Edmund Burke

Politico - Statista - Letterato - Oratore

Edmund Burke

IL PENSIERO
Gran parte dell'attività pubblica burkiana è impegnata a difendere da un lato la Chiesa anglicana dagli attacchi dei "liberi pensatori" e dei riformisti protestanti radicali, dall'altro i cattolici e i dissenzienti protestanti, lesi nei propri diritti dalla politica assolutistica del governo londinese. Ragione di quest'azione politica non è un concetto "latitudinario" di libertà religiosa, ma una visione d'insieme della natura umana e dei rapporti fra lo Stato, i corpi sociali intermedi e i singoli individui minacciati dall'assolutismo moderno. Obiettivo di Burke è garantire uguali diritti a tutti i sudditi britannici, ovunque si trovino e qualunque fede religiosa professino: diritti concreti, acquisiti storicamente in virtù della secolare tradizione costituzionale e consuetudinaria britannica - i "benefici" -, e - a partire dal 1789 francese non a caso in aspra polemica, fra l'altro, con le "libertà inglesi" - contrapposti alle astrazioni illuministico-razionalistiche della Loi e del "diritto nuovo". Lo statista diviene e rimane celebre per quattro "battaglie parlamentari". La prima, a tutela dei diritti costituzionali tradizionali dei coloni britannici in America, si oppone alla tassazione arbitraria, imposta dal governo londinese, e difende l'autentico significato della Costituzione "non scritta" britannica. Con lungimiranza, Burke si accorge della miccia che tale politica va innescando nella polveriera nordamericana e fa di tutto per allontanare lo spettro della perdita delle Colonie. Mai favorevole all'indipendenza che queste dichiarano nel 1776, una volta scoppiato il conflitto armato fra esse e la Corona britannica, egli giudica gli eventi come una "guerra civile" interna all'Impero - non una rivoluzione -, presto sanabile.

La seconda battaglia parlamentare è quella condotta contro l'amministrazione pubblica, che impedisce questa volta ai sudditi irlandesi di fruire dei diritti costituzionali britannici, anche se in tema di libertà religiosa Burke non riesce ad avere altrettanto parziale successo in difesa dei compatrioti cattolici. In terzo luogo, lo statista chiede la messa in stato d'accusa di Warren Hastings (1732-1818), governatore generale dell'India britannica, per il suo malgoverno, ma non è ascoltato. La sua azione decisa comporta comunque qualche moderato successo e, soprattutto, è di monito - poco ascoltato - per il futuro. L'impero dove mai tramontava il sole crollerà infatti più per l'ottusità di certi suoi governanti che non per altre ragioni. L'ultima tenzone parlamentare burkiana ha a tema la Rivoluzione francese.

Nelle “Reflections on the Revolution in France” (“Riflessioni sulla Rivoluzione francese”) - una delle opere più commentate e influenti della storia inglese moderna, pubblicata poco dopo la "presa della Bastiglia", il 14 luglio 1789 -, l'uomo politico anglo-irlandese intuisce, analizzando le premesse filosofiche che aveva visto dipanarsi lungo i decenni precedenti, l'intero corso degli eventi rivoluzionari, dal regicidio alla dittatura militare napoleonica, stigmatizzandone la natura. Per lui, la Rivoluzione costituisce l'avvento della barbarie e della sovversione di ogni legge morale e di ogni consuetudine civile e politica. Sull'interpretazione di tale evento, del resto, lo stesso partito whig si spacca, insanabilmente diviso fra i new whig liberali di Charles James Fox (1749-1806) e gli old whig guidati appunto da Burke, i quali finiscono per stringersi in lega politica con i tory di William Pitt il Giovane (1759-1806). Proprio alla difesa burkiana del "commonwealth cristiano d'Europa", a cui la Francia giacobina e atea si è sottratta e contro il quale essa combatte accanitamente - Burke afferma che, negli anni della Rivoluzione, la Francia autentica risiede all'estero -, si deve quell'appoggio parziale che, in alcuni momenti, il governo britannico fornisce alla causa contro-rivoluzionaria francese.
Il lume della filosofia politica burkiana è, infatti, la difesa dell'ethos classico-cristiano, fondamento della normatività che il pensatore ravvisa nelle consuetudini giuridiche e culturali del suo paese, parte della "società delle nazioni" cristiane europee. Il rapporto burkiano fra diritto naturale morale e istituzioni civili vede queste ultime come tentativo storico di incarnare il primo, secondo una logica che unisce morale personale e morale sociale.

La "filosofia del pregiudizio" - ossia della tradizione e della consuetudine storica - è la grande arma del “common sense” britannico burkiano. Nella sua rilettura revisionista della Rivoluzione francese, la requisitoria di Burke contro i pericoli di dispotismo insiti nei progetti che vogliono ricostruire l’uomo comincia ad apparire quanto mai profetica. La descrisse come "la crisi più stupefacente mai avvenuta al mondo". Coerentemente con i suoi antichi princìpi le si oppose, mentre i suoi alleati di un tempo, coerenti o no con i loro, la sostennero. La sua posizione "antirivoluzionaria" lo "trasformò" in conservatore contro i suoi antichi princìpi al punto da immaginare che nel XIX secolo si sarebbe trovato più a suo agio nel partito dei Tories, che in quello dei Whigs ormai trasformato in partito liberale. Nella sua polemica contro la Rivoluzione, Burke elogia il sistema politico inglese perché "in giusta corrispondenza e simmetria con l’ordine del mondo", mentre la preoccupazione per il fanatismo della ragione, che potrebbe distruggere tutti i vincoli sociali, lo portò a voler difendere la religione statuita , per poter così difendere la società statuita.

"Non escluderei del tutto le alterazioni, ma anche se dovessi mutare, muterei per preservare, grave dovrebbe esser l'oppressione per spingermi al mutamento. E nell'innovare, seguirei l'esempio dei nostri avi, farei la riparazione attenendomi il più possibile allo stile dell'edificio. La prudenza politica, un'attenta circospezione, una timidezza di fondo morale più che dovuta a necessità, furono tra i primi principi normativi dei nostri antenati nella loro condotta più risoluta". (Riflessioni sulla Rivoluzione francese).

Le critiche di Burke, dunque, non sono indirizzate solo alla rivoluzione francese , ma alla rivoluzione in sé, che pretende di interrompere l’evoluzione della storia di una nazione; non solo al giacobinismo che dominava in Francia nell’anno II della repubblica, ma al giacobinismo come categoria politica. Scrive ancora Burke, nelle sue “ Riflessioni sulla Rivoluzione francese”:

"Fare una rivoluzione è una misura che prima fronte richiede una giustificazione. Fare una rivoluzione significa sovvertire l'antico ordinamento del proprio paese; e non si può ricorrere a ragioni comuni per giustificare un così violento procedimento. […] Passando dai princìpi che hanno creato e cementato questa costituzione all'Assemblea nazionale, che deve apparire e agire come potere sovrano, vediamo qui un organismo costituito con ogni possibile potere e senza alcuna possibilità di controllo esterno. Vediamo un organismo senza leggi fondamentali, senza massime stabilite, senza norme di procedure rispettate, che niente può vincolare a un sistema qualsiasi. [...] Se questa mostruosa costituzione continuerà a vivere, la Francia sarà interamente governata da bande di agitatori, da società cittadine composte da manipolatori di assegnati, da fiduciari per la vendita dei beni della Chiesa, procuratori, agenti, speculatori, avventurieri tutti che comporranno una ignobile oligarchia , fondata sulla distruzione della corona, della Chiesa, della nobiltà e del popolo. Qui finiscono tutti gli ingannevoli sogni e visioni di eguaglianza e di diritti dell' uomo. Nella "palude Serbonia" di questa vile oligarchia tutti saranno asorbiti, soffocati e perduti per sempre."

Secondo Russell Kirk (1918-1994) - uno dei "padri" della rinascita burkiana statunitense contemporanea -, il pensatore anglo-irlandese appartiene al "partito dell'ordine": egli, infatti, è figura rappresentativa di quel legittimismo patriottico britannico accorto, che unisce fedeltà e critica costruttiva, e che si riassume nell'espressione conservatrice "opposizione di Sua Maestà", antitetica a quella rivoluzionaria di "opposizione a Sua Maestà". L'influenza di Burke si esercita su pensatori importanti come Joseph de Maistre (1753-1821) e su numerosi autori di area culturale anglosassone, francese e tedesca; ma, soprattutto, dà origine a quello che, nel mondo di lingua inglese, prende il nome tecnico di "pensiero conservatore", inteso come opposizione consapevole al mondo nato con il 1789 francese e con la filosofia rivoluzionaria che lo ha ispirato e mosso. Burke, certo del prossimo successo dei giacobini anche in terra inglese, vuole che la località della propria inumazione sia tenuta segreta, per paura che i nemici possano un giorno giungere a dissacrare il luogo del riposo delle spoglie mortali del loro primo e radicale avversario.

L' INCHIESTA SUL BELLO E SUL SUBLIME
L’indagine “Sul sublime” si era per la prima volta affacciata sullo scenario letterario quando un autore anonimo - presumibilmente nel I secolo d.C. - aveva composto in greco un’opera “Sul sublime” (), in cui si era sforzato di ravvisare quelle che -a suo avviso - erano le 5 “fonti” () da cui il sublime promanava. L’Anonimo sul sublime, tuttavia, si limitava a parlare di “sublime letterario”, un sublime che non investiva l’ambito della natura ma si arrestava alle pagine dei libri (così come brano sublime, ad esempio, egli ci riporta il componimento di Saffo) e non è un caso ch’egli scorga le cinque fonti nel a) concepire pensieri elevati, b) nel paqoV, c) nelle figure retoriche, d) nell’ingegno espressivo, e) nell’elevatezza stilistica. Ora, a parecchi secoli di distanza dall’anonimo, Burke ritorna su questo problema - a sua volta ripreso da Kant - che tende a fare di lui un autore pre-romantico, che tende a sfuggire dal secolo dei “Lumi”: a tale tematica, egli dedica il suo celebre scritto “Inchiesta sul bello e sul sublime”, in cui come cause del sublime individua il terrore, l’oscurità, la potenza, la privazione, la vastità, l’infinità, la difficoltà, la magnificenza. Cominciando dal “terrore”, nessuna passione, come la paura, priva con tanta efficacia la mente di tutto il suo potere di agire e di ragionare. Poiché, essendo il timore l’apprensione di un dolore o della morte, agisce in modo da sembrare un dolore reale, tutto ciò, quindi, che è terribile alla vista è pure sublime, sia che la causa della paura alla grandezza delle dimensioni oppure no (vi sono molti animali che, sebbene non siano affatto grossi, sono tuttavia capaci di suscitare l’idea del sublime, come i serpenti velenosi).
Per rendere poi un oggetto molto terribile, sembra in generale necessaria l’oscurità.




Quando conosciamo l’intera estensione di un pericolo, quando possiamo abituare a essa il nostro sguardo, gran parte del timore svanisce: la notte, è comune a tutti, aumenta il nostro terrore; le nozioni di fantasmi e folletti, sui quali nessuno può formulare delle idee chiare impressionano gli animi di chi crede nelle favole popolari. Al terzo posto sta poi la potenza: il dolore è sempre inflitto da un potere superiore, poiché non ci sottomettiamo mai al dolore spontaneamente. La potenza trae la sua sublimità dal terrore a cui va unita, ogni volta che la forza è soltanto utile e viene usata a nostro beneficio o per il nostro piacere, non è mai sublime: un bue è un essere di grande forza, ma è una creatura innocente e per nulla pericolosa; per questo l’idea di un bue non è per niente sublime. L’idea di un toro, invece è grandiosa, ed esso trova sovente posto in descrizioni sublimi e in nobili paragoni. Successivamente, è la volta della privazione: tutte le privazioni sono grandi perché tutte terribili: il vuoto, l’oscurità, la solitudine e il silenzio. Per quel che riguarda la vastità, l’estensione è o in lunghezza o in altezza o in profondità. Di queste la lunghezza colpisce meno. Allo stesso modo l’altezza è meno grandiosa della profondità; infatti siamo maggiormente impressionati nel guardare giù da un precipizio che nel guardare verso l’alto un oggetto di uguale altezza. Come il grado estremo della dimensione è sublime, così il grado estremo della piccolezza è pure sublime.

Quando noi osserviamo l’infinita divisibilità della materia, quando seguiamo la vita animale in esseri piccolissimi e pure organizzati e la scala dell’esistenza che ancora diminuisce, rimaniamo stupiti e confusi ai miracoli della piccolezza. Passando poi all’infinità, vi sono pochissime cose che per loro natura sono infinite, ma non essendo l’occhio capace di percepire i limiti di molte cose, sembra che esse siano infinite e producono gli stessi effetti che se realmente lo fossero. Ogni volta che nel nostro pensiero ritorna con frequenza un’idea, essa viene ripetuta ancora molto tempo dopo che la prima causa ha cessato di agire: ad esempio dopo una lunga successione di rumori, come può essere una cascata, l’acqua ancora rumoreggia nella nostra immaginazione molto tempo dopo che i primi rumori hanno cessato di esistere. L’Infinito di Leopardi si muove - in qualche misura - in questa prospettiva. Passando alla difficoltà, quando un’opera sembra abbia richiesto un’immensa forza e fatica per essere compiuta, l’idea che ne abbiamo è grandiosa. Stonehenge non offre quanto a disposizione di masse o a decorazione alcunché di ammirevole; ma quegli immensi rozzi macigni di pietra ritti e messi l’uno sull’altro spingono il pensiero all’immensa forza necessaria per tale lavoro. Anzi la rozzezza dell’opera accresce questo motivo di grandiosità, mentre esclude l’idea di arte. Infine, la magnificenza: una grande profusione di cose, splendide o pregevoli in se stesse, è magnifica. Il cielo stellato, sebbene cada frequentemente sotto il nostro sguardo, suscita sempre un’idea di grandiosità, che non può essere dovuta a qualcosa che si trovi nelle stelle stesse considerate. separatamente. La causa sta certamente nel loro numero.

Il disordine apparente aumenta la grandiosità, poiché l’aspetto dell’ordine è altamente contrario alla nostra idea di magnificenza. Ma, esaminate le “cause” del sublime, resta da chiarire in che cosa esso si distingua, propriamente, dal bello: Kant dirà (nella “Critica del Giudizio”) che il bello è dettato da un libero gioco delle facoltà intellettive, per cui al vedere un bel paesaggio proviamo piacere perché è come se esso si adeguasse spontaneamente alle nostre categorie intellettive; per il sublime, invece, Kant (che aveva in mente il cielo stellato, le catene montuose, il mare in tempesta) intende qualcosa di ambiguo, che desta al contempo piacere e senso di smarrimento: l'oggetto in questione (vuoi il mare in tempesta, vuoi il cielo stellato o le montagne) non si adegua spontaneamente a noi e alle nostre facoltà conoscitive, ma ci incute timore perchè manifesta la sterminata grandezza e la sterminata potenza della natura di fronte alla sterminata piccolezza e impotenza dell'uomo; mentre il bello è univocamente positivo, il sublime è positivo e negativo al tempo stesso. Ora Burke così si esprime:

“Nel chiudere questa visione d'insieme della bellezza sorge naturale l'idea di paragonarla col sublime, e in questo paragone appare notevole il contrasto. Gli oggetti sublimi sono infatti vasti nelle loro dimensioni, e quelli belli al confronto sono piccoli; se la bellezza deve essere liscia e levigata, la grandiosità è ruvida e trascurata; la bellezza deve evitare la linea retta, ma deviare da essa insensibilmente; la grandiosità in molti casi ama la linea retta, e quando se ne allontana compie spesso una forte deviazione; la bellezza non deve essere oscura, la grandiosità deve essere tetra e tenebrosa; la bellezza deve essere leggera e delicata, la grandiosità solida e perfino massiccia. Il bello e il sublime sono davvero idee di natura diversa, essendo l'uno fondato sul dolore e l'altro sul piacere, e per quanto possano scostarsi in seguito dalla diretta natura delle loro cause, pure queste cause sono sempre distinte fra loro, distinzioni che non deve mai dimenticare chi si proponga di suscitare passioni”. (E. Burke, Inchiesta sul Bello e il Sublime)

BIBLIOGRAFIA
The Writings and Speeches of Edmund Burke, a cura di P. Langford, Oxford, Clarendon Press 1981- , vols I, II, III, V, VI, VIII, IX (deve essere completata in 12 volumi).
Works and correspondence of the Right Hon. Edmund Burke, London, Rivington 1852, vols I-VIII.
The correspondance of Edmund Burke, a cura di Thomas W. Copeland, Cambridge University Press 1958-1976, vols I-X.
The parliamentary history of England from the earliest period to the year 1803, a cura di William Cobbet, London, Hansard 1816, vols XVI-XXXI.
A note-book of Edmund Burke, a cura di V.S. Somerset, Cambridge, Cambridge University Press, 1957. "The Reformer", n. 1-13, January-april 1748, in, A.P.I. Samuels, The early Life Correspondence and Writings of The Rt. Hon. Edmund Burke, Cambridge University Press 1923. "Annual Register", 1758-1790.
Further reflections on the Revolution in France, Indianapolis, Liberty Press 1992.
A Vindication of Natural Society or a view of the Miseries and Evils Arising to Mankind fron Every Species of Artificial Society (1756), Indianapolis, Liberty Press 1982.
A Philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and Beautiful (1757), London, Routledge and Kegan 1958.
Pre-Revolutionary Writings, Cambridge University Press 1993.

Frasi Celebri di Edmund Burke

Virtù/Vizio:
C'è tuttavia un limite oltre il quale la pazienza cessa di essere una virtù.
Famiglia:
Coloro che non hanno riguardo per i propri antenati non possono averne per i propri posteri.
Intelligenza/Stupidità:
È lenta la marcia della mente umana.

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Data creazione biografia: 29 dicembre 2005
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